06/10/10
W la prima lettera
Sholes & Glidden brevettarono "una macchina per scrivere"; Sholes cercò di realizzare un dispositivo numeratore, ma Charles Glidden, lo indirizzò verso la realizzazione di una macchina per scrivere: il primo modello venne costruito nel 1867. Nel 1868 seguì un nuovo e più elaborato modello. L'invenzione della macchina da scrivere viene attribuita a C. L. Sholes con il contributo di C. Glidden. Nel 1867 costruirono un primo prototipo che stampava una sola lettera ('W') ma possedeva le basi per il giusto meccanismo.
01/10/10
Gioie
e tutto a un tratto uscì il sole. W
prove di trasmissione W
1,2,3 prova
22/06/10
31/05/10
02/05/10
19/04/10
17/04/10
Lucia Amara
Storia della W
intuizioni sul mondo in attesa che diventino una costruzione compiuta
Microtopografia
Qui si tratta di una lettera: la W, una M rovesciata. Qui si tratta di dar conto di un atto illegale. Di un’espropriazione indebita dall’alfabeto, dal discorso, dalle aggregazioni semantiche, dalle permutazioni anagrammatiche. Qui non si sfiora neanche il grado zero della frase minima completa. E questo sequestro ne inaugura poi una sequela infinita. Non c’è discorso attorno alla W, essa parla di una speculazione, ma nel senso non filosofico del termine, intesa a deformare a proprio favore l’obiettività dei fatti. Una speculazione che riguarda luoghi, modi di costruire e di impiantare: una microspeculazione edilizia. Quando conferisce voce a qualcosa, la W, lo fa perché dà fondo alla banalità e profondità del chiacchiericcio.
Dal qui si tratta al trattare, poi, si insedia un ulteriore abuso: perché la W, segno sganciato nella città, in quanto indebito e illegittimo, può dar corso a una espropriazione/appropriazione estrema, ai limiti del plagio: la prima è dichiarata in apertura. Il resto scompare nella scrittura: è rumore.
Quindi ci approprieremo della dedica in calce a L’invention du quotidien di Michel De Certeau, apparso per Christian Bourgois nel febbraio del 1980 e della dedica tratterremo la promessa di cattura del rumore, del quotidiano, del mormorio. Come questione della città.
Questo saggio è dedicato all’uomo comune. Eroe di tutti i giorni. Personaggio diffuso. Uno dei tanti che camminano per strada. Invocando, nel cominciare i miei racconti, l’assente, che dà loro inizio e necessità, mi interrogo sul desiderio di cui egli appare come l’impossibile oggetto. A questo oracolo confuso col rumore della storia, cosa chiediamo di far credere o autorizzarci a dire quando gli dedichiamo la scrittura che un tempo si offriva in omaggio alle divinità o alle muse ispiratrici?
Questo eroe anonimo viene da molto lontano. E’ il mormorio delle società. In ogni epoca previene i testi. Non li attende neppure. Se ne fa beffe. Ma nelle rappresentazioni scritturali, s’avanza gradualmente e poco a poco occupa il centro delle nostre scene scientifiche. I riflettori hanno abbandonato gli attori che possiedono nomi propri e prestigio sociale per volgerci verso il coro dei figuranti ammassati sui due lati, e fissarsi infine sulla folla degli spettatori .
Prelevando selvaggiamente da questo piano visionario stralci di deambulazioni fisiche, di enunciati pedonali, retoriche podistiche, traverse e derive. Attraverso ingrandimenti, rimpicciolimenti e frammentazioni di un fraseggio spaziale di tipo antologico (composto di citazioni giustapposte) e ellittico (fatto di vuoti, lapsus e allusioni), si potrebbe ricostruire il sembiante sgangherato di una città non-ideale. Si potrebbe intercettare una pratica minuscola che fa svanire parti della città di cui esagera alcuni punti, per aggirarne il suo ordine immobile. Lo sfondo sonoro è lo strepitio del parlare, leggere, conversare, circolare, fare la spesa o cucinare. Tutto ciò che parla, risuona, sfiora, passa. Forma elementare di questa esperienza sono i passanti, Wandersmänner, i cui corpi obbediscono ai pieni e ai vuoti di un testo urbano che essi scrivono, senza poterlo leggere. L’incrocio dei loro cammini, in cui ciascun corpo è elemento firmato da altri, non disegna nulla che formi una storia.
La proliferazione
In questo tentativo fallimentare di stendere un protocollo della W, il Wandersmann diviene l’emblema della possibilità di conferire al segno una cornice concettuale solida, di preparare alla W il terreno ad altre speculazioni. Ma la doppia v è sdrucciolevole e pericolosa e scivola di fronte a qualsiasi appiglio. È così che Wandersmann, per contiguità e assonanza, avvia la proliferazione della W, una proliferazione senza limiti, che, in certi casi, produce diramazioni collaterali, al limite del patologico. Uno strano fanatismo dell’elencazione, dell’archiviazione smisurata, della collezione enciclopedica, dell’accumulo e della campionatura (Wunderkammer). Un cielo di oggetti sparsi, reliquie, reperti: “L’opera-collezione è incredibilmente deperibile, viziata da una fragilità quasi patetica, esposta com’è alla dispersione, al continuo movimento che sposta gli oggetti, li sottrae a un insieme per lasciarli depositare in un altro, o isolarli definitivamente” (Adalgisa Lugli).
Nella maggior parte dei casi la proliferazione è arbitraria. Le cose sono totalmente staccate dalle parole. Qui parliamo di parole schizofrenicamente scisse dal corpo. Di parole da cui cadono consonanti, spine o schegge dannose e dure. E qui evochiamo Louis Wolfson, il linguista schizofrenico la cui identità è costruita su una combinatoria fonetica e molecolare. Celebriamo il suo stetoscopio che lui collegava a un magnetoscopio. Celebriamo Wolfson come precursore del walkman. Quale sarà il suono emesso dalle vibrazioni dei magnetiti? Forse catturerà le onde medie di un mormorio cosmico universale?
Un segno inesperto
La fitta rete di viste/pratiche urbane individuate da De Certeau può interagire con questa storia, più contingente e meno mitologica ancora del quotidiano caldeggiato dal filosofo francese, come un rumore di oggetti ancor più piccoli, minuscoli, microscopici. Il brusio delle cose, il modo in cui si posano/depositano/stanno sulle estensioni. In questo caso un’insegna rossa con una W bianca (un cartello come quelli davanti le entrate della Metro, ma invertito, rovesciato.) Tuttavia l’i-n-s-e-g-n-a è lontana dall’in-segnare qualcosa, dall’indicare un luogo, da sintetizzare un logo, da prestarsi a un no-logo. E’ segno inesperto. Non cura. Non fonda lo sguardo. Non parla di non-luoghi. Non guarda la città dall’alto, privo com’è di qualsiasi pulsione scopica. Non si posiziona: si posa ed è posato. Si sottrae alla presa della città: osserva immoto l’insieme strapiombare. In un solo punto, con la sua prepotente e schiva azione, istituisce, senza volerlo, un basso, dove cessa la visibilità (pratiche dello spazio che rinviano a una città transumante). Si inabissano il nettuno, la piazza, la linea, le linee, le scale, i portici, i varchi, i limini, le soglie, le utopie, e le atopie, l’interazione e gli sconfinamenti, le tecniche del corpo, il frame. Una volta per tutte. W!
Wanted: four days living as talps
L’insegna con la W viene istallata nell’aprile del 2007, all’entrata della Galleria d’Accursio nella piazza principale di Bologna proprio nel punto in cui si può imboccare per discendervi e assistere per quattro giorni a Wanted - intuizioni sul mondo in attesa che diventino una costruzione compiuta, progetto speciale firmato da Kinkaleri. Qui si istituiscono segmenti di una mappa inedita. Il primo è quello promosso dalla discesa che inverte il movimento-mito metropolitano della città che sale a favore di un abbassamento della linea di percorribilità dei tracciati urbani frusti ed epidermici. Lo spazio di Wanted, un sottopasso, sfiora il selciato romano, l’acqua: strati interdetti del centro abitato. Non c’è linea: il né cielo né inferno di Bunker, la cui letteratura costituisce una delle muse del progetto.
E l’insegna, la W, osserva muta la catabasi, l’esodo viscerale verso il basso. Il gioco combinatorio è da subito inaugurato e attivato dagli stessi ideatori attorno alla possibilità indefinitamente contemplata (o desiderata) di uno spostamento nel meraviglioso (wonder) che l’operazione ha in sé come primo lascito nella città.
E infine, in fondo, c’è quel titolo, Wanted, come passività e estremo coinvolgimento del (soggetto) passante/discendente. L’insegna sa dire solo una frase: Sei desiderato, come rendez-vous. Ci vediamo sotto la doppia v: il segnale è dato, c’è un repère, non più vagamente il monumento immobile. Ma lì. Il segno. Impiantato. Alle undici. Ok. :))
Un segno irresponsabile e parassita
Nell’arco di tempo che va dall’aprile 2007 a oggi, la W viene fatta interagire, o si prova a farla interagire, con la Città, Comune o Istituzioni Museali o altro che potrebbero acquistarla come oggetto d’arte pubblica. Le trattative però non hanno seguito, si arenano e il cartello diviene segno sganciato da ogni permesso, non integrato nel piano dell’ornato pubblico, in una posizione lievemente aggettante. In questa condizione di totale libertà e irresponsabilità la W dimora a suo agio andando a nutrire la folta schiera di forme urbane che Françoise Choay risolveva, negli anni settanta, col binomio Espacements/Connections, spazi di connessioni o agganciamenti, spesso avvolti dal silenzio. Per altre direzioni la W potrebbe, invece, appartenere a quello che Gilles Clément chiama Terzo Paesaggio: un insieme organizzato secondo le possibilità offerte dal rilievo, le esposizioni, gli accessi. In questo stato di inezia la W si assottiglia, parassita, schiusa all’evenienza. Due immagini immortalano questa nuova foggia. La prima ritrae la W, testimonial non invitato, accanto a un enorme striscione che pubblicizza un evento svoltosi nell’autunno 2007: “Attenzione. Attenzione. Qui sotto è atterrato un ufo”. L’altra, simile, fotografa la W accanto al manifesto di una rassegna di musica. La scritta è chiara, quasi banale: Genius Loci. Una terza pista, messa in moto da cittadini che chiedono spiegazioni nelle rubriche tipo Lettere al Giornale o La Vostra Posta, fa coincidere quel segno con la zona dotata di sistema Wireless gratuito, appena inaugurata dall'amministrazione nella piazza. La leggenda metropolitana si arricchisce di nuovi capitoli. La W mostra timidamente, in queste circostanze e del tutto fortuite sovrapposizioni, la sua brama sotterranea a fare ingresso nella storia, attraverso un’investitura pubblica, il plauso e la lode della comunità. Ma tutto questo rimane nell’ordine di desideri sfiorati.
Il nuovo conio: la duplicazione o Wasted
Aprile 2008. L’insegna viene duplicata, nel senso vero del termine, esattamente uguale a se stessa. La copia del micro-eco-mostro viene posata stavolta davanti a un altro varco, sempre nel centro di Bologna, mimetizzato tra divieti d'accesso e semafori: segna il sottopasso di Ugo Bassi/Marconi. Il testimone viene passato a MK & guests che riapre il progetto: un gruppo di performer si immerge per 48 ore in un ambiente improprio per costruire un prototipo di habitat precario, allo stesso tempo domestico e selvaggio. L’immagine di una collinetta sgombra, Wasted, in cui insediare una primitiva unità abitativa promette un gesto di fondazione in assenza di infrastrutture architettoniche, la riduzione del tracciato dell’essere e dello stare a una scarnificata postazione cumulativa, di materiali e corpo. Essere e abitare. Lo shelter/clothing (ricovero/vestiario) degli studi di paletnologia. Bioma/Habitat. I processi attivabili riguardano la creazione di un recinto separativo nel vuoto più totale. Si inverte, nello stesso movimento rovesciato della W, lo sguardo sul resto/rifiuto: non lo si smaltisce e lo si sposta in un altro luogo. Si simula il processo deposizionale, di scarico, perdita di un oggetto, riciclo, immagazzinamento, consumazione, in un arco di tempo dato. Si scavano fosse, cunicoli, si creano savane di polistirolo. Si ri-produce in nome dell’analogo, del simile, invertibile e duplicabile indefinitamente. La gestualità cercata è quella domestica, ordinaria e prosaica, dell’abitare, permanere, soggiornare: come quella di un uomo che riassetta le camicie su una gruccia, in una serie di azioni efficienti e lavoratrici. Il quasi-stanziale. La cuccia, il nido. Dalla forma vagamente tonda di Wanted. A quella vagamente quadrata di Wasted. Dopo due giorni, poi, uomini, cose e abitacoli annegano nuovamente nelle maglie della città.
Insigna tertia: Wrestling
Aprile 2009. Riemerge per la terza volta la copia dell’insegna, in un altro luogo della città, in uno dei luoghi deputati del tifo bolognese. Ancora una volta la W, nella sua totale scempiaggine, promuove un abbassamento della linea metropolitana, ne indica i sentieri non-calpestabili. Lo spazio è il piano interrato del palazzetto dello sport. Piazza Azzarita, e lì vicino una rotonda: un'aiuola spartitraffico che gli sportivi hanno incrociato mille volte. La cura di ciò che sotto le ali protettive della doppia v avverrà, è in mano stavolta a Barokthegreat. Il recinto abitativo si staglia netto, ritaglia uno spazio di competizione: Wrestling. Stavolta la pianta dell’essere e dell’abitare è un perimetro inequivocabile, quello del ring. Alcuni artisti rispondono all’appello di Barokthegreat che invita performer, musicisti e master of cerimonies a combattere nel ring. C’è una griglia rigida: il gong stabilisce l’inizio e la fine dei vari incontri. I set hanno una durata fissa: 15 minuti. Ogni individualità in campo si mostra nella sua differenza ed è ciò che stabilisce la misura, il ritmo e la qualità dell’agire. Ci si presenta per combattere, qui e ora. La forma dell’happening sembra puntualmente interessare tutto ciò che s’incrocia con la W. Lo scontro, infatti, è adrenalinico, non si immagina e vive nella durata. “Il ring è lo spazio mutevole che contempla tracciati geometrici, figurazioni aeree, sistemi dagli andamenti sinusoidali, ospita ritmi cardiaci e perdite d’intensità. Lo sforzo è fisico. Lo spazio è la lotta. Il pubblico segue il corso del tempo”. La W rimira questo momento di gara senza vincitori scrutando trionfante e poi, di nuovo, si consegna immota alla città muta e silente di segni. Brrrrr.
Voice of the city: Waudeville
Ora arriva la quarta occasione e sembra un po’ il quarto disco di un gruppo: il primo è la scoperta, il secondo è la conferma, il terzo è la proclamazione e Open potrebbe essere il Best of…
Aprile 2010. Il testimone W passa a Open, una piattaforma aperta formata da alcuni artisti con l’intento di condividere e ridistribuire idee, riflessioni e pratiche di lavoro intorno alla creazione di eventi performativi. La quarta stazione di posa è l'antico Sferisterio, spazio celato nel quale si discende dal mercato della Montagnola, il bazar della città. La W è apparsa su Via Irnerio. Open mutua la foggia dell’evento dal vaudeville, un genere di varietà di intrattenimento diffuso negli Stati Uniti tra la fine dell’ottocento e il novecento. Ogni performance era composta da una serie di atti separati e messi in relazione assieme da un’unica orchestrazione. L’origine del termine è oscura, ma sembra possa derivare, tra le tante ipotesi, dall’espressione voix de la ville (voce della città). Il termine Vaudeville, come di protocollo per tutti gli iniziati della W, subisce l’ennesima distorsione fonetica e alfabetica. Si attraversa l’incertezza espressa dal condizionale da una parte, la previsione in attesa di compiersi del futuro dall’altra: would-will. Infine Open si impianta definitivamente nella deformazione, ancora la w, ancora quel segno che invade ogni discorso. E il risultato è Waudeville. La proliferazione sciocca avviata dalla W non ha più limiti, è maniacale, tenta la via della polifonia, della poliglottia, della cittadinanza universale e spettacolare:
uno spazio di intra-tenimento / un segui persone / una creazione di circostanza / un intercettazione umorale/ una gara canina / un non prefigurato / un esercizio di respirazione / un istantanea di microclimi / una squadra di rugby / un economia del gesto / un piano di introduzione ed evacuazione / una gara di macchine telecomandate / un lanciatore di coltelli / una polifonia / una poli (presenza) / un palinsesto di inviti / un serpente / un allenamento / uno spogliatoio / una cognitio experimentalis / una bambina pattinatrice / una varietà della varietà / una shared common experience / una qualità quasi idiota / un coro di bevitori /un luogo del divertimento / un belvedere / una veduta / una coperta lunga / un luogo di passaggio / un bacio / una parola esotica / un piegamento all'indietro / un bengalese che taglia i capelli / una piccola oasi / una atletica allegra / un "nel frattempo".
W (- franchising Kinkaleri -) è il prefisso di differenti flessioni di uno spazio suscettibile a essere abitato. Continua la sua sventatezza.
Fonti depredate
M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano, Roma, Edizioni Lavoro, 2005.
F. Choay, Espacemens. Figure di spazi urbani nel tempo, Milano, Skira, 2003.
G. Clément, Manifesto del Terzo paesaggio, Macerata, Quodlibet, 2004.
A. Lugli, Naturalia et mirabilia. Il collezionismo enciclopedico nelle wunderkammern d’Europa, Milano, Mazzotta, 1990.
L. Wolfson, Le Schizo et les langues, Paris, Gallimard, 1970.
Differenti piani regolatori per l’ornato pubblico di città italiane.
Storia della W
intuizioni sul mondo in attesa che diventino una costruzione compiuta
Microtopografia
Qui si tratta di una lettera: la W, una M rovesciata. Qui si tratta di dar conto di un atto illegale. Di un’espropriazione indebita dall’alfabeto, dal discorso, dalle aggregazioni semantiche, dalle permutazioni anagrammatiche. Qui non si sfiora neanche il grado zero della frase minima completa. E questo sequestro ne inaugura poi una sequela infinita. Non c’è discorso attorno alla W, essa parla di una speculazione, ma nel senso non filosofico del termine, intesa a deformare a proprio favore l’obiettività dei fatti. Una speculazione che riguarda luoghi, modi di costruire e di impiantare: una microspeculazione edilizia. Quando conferisce voce a qualcosa, la W, lo fa perché dà fondo alla banalità e profondità del chiacchiericcio.
Dal qui si tratta al trattare, poi, si insedia un ulteriore abuso: perché la W, segno sganciato nella città, in quanto indebito e illegittimo, può dar corso a una espropriazione/appropriazione estrema, ai limiti del plagio: la prima è dichiarata in apertura. Il resto scompare nella scrittura: è rumore.
Quindi ci approprieremo della dedica in calce a L’invention du quotidien di Michel De Certeau, apparso per Christian Bourgois nel febbraio del 1980 e della dedica tratterremo la promessa di cattura del rumore, del quotidiano, del mormorio. Come questione della città.
Questo saggio è dedicato all’uomo comune. Eroe di tutti i giorni. Personaggio diffuso. Uno dei tanti che camminano per strada. Invocando, nel cominciare i miei racconti, l’assente, che dà loro inizio e necessità, mi interrogo sul desiderio di cui egli appare come l’impossibile oggetto. A questo oracolo confuso col rumore della storia, cosa chiediamo di far credere o autorizzarci a dire quando gli dedichiamo la scrittura che un tempo si offriva in omaggio alle divinità o alle muse ispiratrici?
Questo eroe anonimo viene da molto lontano. E’ il mormorio delle società. In ogni epoca previene i testi. Non li attende neppure. Se ne fa beffe. Ma nelle rappresentazioni scritturali, s’avanza gradualmente e poco a poco occupa il centro delle nostre scene scientifiche. I riflettori hanno abbandonato gli attori che possiedono nomi propri e prestigio sociale per volgerci verso il coro dei figuranti ammassati sui due lati, e fissarsi infine sulla folla degli spettatori .
Prelevando selvaggiamente da questo piano visionario stralci di deambulazioni fisiche, di enunciati pedonali, retoriche podistiche, traverse e derive. Attraverso ingrandimenti, rimpicciolimenti e frammentazioni di un fraseggio spaziale di tipo antologico (composto di citazioni giustapposte) e ellittico (fatto di vuoti, lapsus e allusioni), si potrebbe ricostruire il sembiante sgangherato di una città non-ideale. Si potrebbe intercettare una pratica minuscola che fa svanire parti della città di cui esagera alcuni punti, per aggirarne il suo ordine immobile. Lo sfondo sonoro è lo strepitio del parlare, leggere, conversare, circolare, fare la spesa o cucinare. Tutto ciò che parla, risuona, sfiora, passa. Forma elementare di questa esperienza sono i passanti, Wandersmänner, i cui corpi obbediscono ai pieni e ai vuoti di un testo urbano che essi scrivono, senza poterlo leggere. L’incrocio dei loro cammini, in cui ciascun corpo è elemento firmato da altri, non disegna nulla che formi una storia.
La proliferazione
In questo tentativo fallimentare di stendere un protocollo della W, il Wandersmann diviene l’emblema della possibilità di conferire al segno una cornice concettuale solida, di preparare alla W il terreno ad altre speculazioni. Ma la doppia v è sdrucciolevole e pericolosa e scivola di fronte a qualsiasi appiglio. È così che Wandersmann, per contiguità e assonanza, avvia la proliferazione della W, una proliferazione senza limiti, che, in certi casi, produce diramazioni collaterali, al limite del patologico. Uno strano fanatismo dell’elencazione, dell’archiviazione smisurata, della collezione enciclopedica, dell’accumulo e della campionatura (Wunderkammer). Un cielo di oggetti sparsi, reliquie, reperti: “L’opera-collezione è incredibilmente deperibile, viziata da una fragilità quasi patetica, esposta com’è alla dispersione, al continuo movimento che sposta gli oggetti, li sottrae a un insieme per lasciarli depositare in un altro, o isolarli definitivamente” (Adalgisa Lugli).
Nella maggior parte dei casi la proliferazione è arbitraria. Le cose sono totalmente staccate dalle parole. Qui parliamo di parole schizofrenicamente scisse dal corpo. Di parole da cui cadono consonanti, spine o schegge dannose e dure. E qui evochiamo Louis Wolfson, il linguista schizofrenico la cui identità è costruita su una combinatoria fonetica e molecolare. Celebriamo il suo stetoscopio che lui collegava a un magnetoscopio. Celebriamo Wolfson come precursore del walkman. Quale sarà il suono emesso dalle vibrazioni dei magnetiti? Forse catturerà le onde medie di un mormorio cosmico universale?
Un segno inesperto
La fitta rete di viste/pratiche urbane individuate da De Certeau può interagire con questa storia, più contingente e meno mitologica ancora del quotidiano caldeggiato dal filosofo francese, come un rumore di oggetti ancor più piccoli, minuscoli, microscopici. Il brusio delle cose, il modo in cui si posano/depositano/stanno sulle estensioni. In questo caso un’insegna rossa con una W bianca (un cartello come quelli davanti le entrate della Metro, ma invertito, rovesciato.) Tuttavia l’i-n-s-e-g-n-a è lontana dall’in-segnare qualcosa, dall’indicare un luogo, da sintetizzare un logo, da prestarsi a un no-logo. E’ segno inesperto. Non cura. Non fonda lo sguardo. Non parla di non-luoghi. Non guarda la città dall’alto, privo com’è di qualsiasi pulsione scopica. Non si posiziona: si posa ed è posato. Si sottrae alla presa della città: osserva immoto l’insieme strapiombare. In un solo punto, con la sua prepotente e schiva azione, istituisce, senza volerlo, un basso, dove cessa la visibilità (pratiche dello spazio che rinviano a una città transumante). Si inabissano il nettuno, la piazza, la linea, le linee, le scale, i portici, i varchi, i limini, le soglie, le utopie, e le atopie, l’interazione e gli sconfinamenti, le tecniche del corpo, il frame. Una volta per tutte. W!
Wanted: four days living as talps
L’insegna con la W viene istallata nell’aprile del 2007, all’entrata della Galleria d’Accursio nella piazza principale di Bologna proprio nel punto in cui si può imboccare per discendervi e assistere per quattro giorni a Wanted - intuizioni sul mondo in attesa che diventino una costruzione compiuta, progetto speciale firmato da Kinkaleri. Qui si istituiscono segmenti di una mappa inedita. Il primo è quello promosso dalla discesa che inverte il movimento-mito metropolitano della città che sale a favore di un abbassamento della linea di percorribilità dei tracciati urbani frusti ed epidermici. Lo spazio di Wanted, un sottopasso, sfiora il selciato romano, l’acqua: strati interdetti del centro abitato. Non c’è linea: il né cielo né inferno di Bunker, la cui letteratura costituisce una delle muse del progetto.
E l’insegna, la W, osserva muta la catabasi, l’esodo viscerale verso il basso. Il gioco combinatorio è da subito inaugurato e attivato dagli stessi ideatori attorno alla possibilità indefinitamente contemplata (o desiderata) di uno spostamento nel meraviglioso (wonder) che l’operazione ha in sé come primo lascito nella città.
E infine, in fondo, c’è quel titolo, Wanted, come passività e estremo coinvolgimento del (soggetto) passante/discendente. L’insegna sa dire solo una frase: Sei desiderato, come rendez-vous. Ci vediamo sotto la doppia v: il segnale è dato, c’è un repère, non più vagamente il monumento immobile. Ma lì. Il segno. Impiantato. Alle undici. Ok. :))
Un segno irresponsabile e parassita
Nell’arco di tempo che va dall’aprile 2007 a oggi, la W viene fatta interagire, o si prova a farla interagire, con la Città, Comune o Istituzioni Museali o altro che potrebbero acquistarla come oggetto d’arte pubblica. Le trattative però non hanno seguito, si arenano e il cartello diviene segno sganciato da ogni permesso, non integrato nel piano dell’ornato pubblico, in una posizione lievemente aggettante. In questa condizione di totale libertà e irresponsabilità la W dimora a suo agio andando a nutrire la folta schiera di forme urbane che Françoise Choay risolveva, negli anni settanta, col binomio Espacements/Connections, spazi di connessioni o agganciamenti, spesso avvolti dal silenzio. Per altre direzioni la W potrebbe, invece, appartenere a quello che Gilles Clément chiama Terzo Paesaggio: un insieme organizzato secondo le possibilità offerte dal rilievo, le esposizioni, gli accessi. In questo stato di inezia la W si assottiglia, parassita, schiusa all’evenienza. Due immagini immortalano questa nuova foggia. La prima ritrae la W, testimonial non invitato, accanto a un enorme striscione che pubblicizza un evento svoltosi nell’autunno 2007: “Attenzione. Attenzione. Qui sotto è atterrato un ufo”. L’altra, simile, fotografa la W accanto al manifesto di una rassegna di musica. La scritta è chiara, quasi banale: Genius Loci. Una terza pista, messa in moto da cittadini che chiedono spiegazioni nelle rubriche tipo Lettere al Giornale o La Vostra Posta, fa coincidere quel segno con la zona dotata di sistema Wireless gratuito, appena inaugurata dall'amministrazione nella piazza. La leggenda metropolitana si arricchisce di nuovi capitoli. La W mostra timidamente, in queste circostanze e del tutto fortuite sovrapposizioni, la sua brama sotterranea a fare ingresso nella storia, attraverso un’investitura pubblica, il plauso e la lode della comunità. Ma tutto questo rimane nell’ordine di desideri sfiorati.
Il nuovo conio: la duplicazione o Wasted
Aprile 2008. L’insegna viene duplicata, nel senso vero del termine, esattamente uguale a se stessa. La copia del micro-eco-mostro viene posata stavolta davanti a un altro varco, sempre nel centro di Bologna, mimetizzato tra divieti d'accesso e semafori: segna il sottopasso di Ugo Bassi/Marconi. Il testimone viene passato a MK & guests che riapre il progetto: un gruppo di performer si immerge per 48 ore in un ambiente improprio per costruire un prototipo di habitat precario, allo stesso tempo domestico e selvaggio. L’immagine di una collinetta sgombra, Wasted, in cui insediare una primitiva unità abitativa promette un gesto di fondazione in assenza di infrastrutture architettoniche, la riduzione del tracciato dell’essere e dello stare a una scarnificata postazione cumulativa, di materiali e corpo. Essere e abitare. Lo shelter/clothing (ricovero/vestiario) degli studi di paletnologia. Bioma/Habitat. I processi attivabili riguardano la creazione di un recinto separativo nel vuoto più totale. Si inverte, nello stesso movimento rovesciato della W, lo sguardo sul resto/rifiuto: non lo si smaltisce e lo si sposta in un altro luogo. Si simula il processo deposizionale, di scarico, perdita di un oggetto, riciclo, immagazzinamento, consumazione, in un arco di tempo dato. Si scavano fosse, cunicoli, si creano savane di polistirolo. Si ri-produce in nome dell’analogo, del simile, invertibile e duplicabile indefinitamente. La gestualità cercata è quella domestica, ordinaria e prosaica, dell’abitare, permanere, soggiornare: come quella di un uomo che riassetta le camicie su una gruccia, in una serie di azioni efficienti e lavoratrici. Il quasi-stanziale. La cuccia, il nido. Dalla forma vagamente tonda di Wanted. A quella vagamente quadrata di Wasted. Dopo due giorni, poi, uomini, cose e abitacoli annegano nuovamente nelle maglie della città.
Insigna tertia: Wrestling
Aprile 2009. Riemerge per la terza volta la copia dell’insegna, in un altro luogo della città, in uno dei luoghi deputati del tifo bolognese. Ancora una volta la W, nella sua totale scempiaggine, promuove un abbassamento della linea metropolitana, ne indica i sentieri non-calpestabili. Lo spazio è il piano interrato del palazzetto dello sport. Piazza Azzarita, e lì vicino una rotonda: un'aiuola spartitraffico che gli sportivi hanno incrociato mille volte. La cura di ciò che sotto le ali protettive della doppia v avverrà, è in mano stavolta a Barokthegreat. Il recinto abitativo si staglia netto, ritaglia uno spazio di competizione: Wrestling. Stavolta la pianta dell’essere e dell’abitare è un perimetro inequivocabile, quello del ring. Alcuni artisti rispondono all’appello di Barokthegreat che invita performer, musicisti e master of cerimonies a combattere nel ring. C’è una griglia rigida: il gong stabilisce l’inizio e la fine dei vari incontri. I set hanno una durata fissa: 15 minuti. Ogni individualità in campo si mostra nella sua differenza ed è ciò che stabilisce la misura, il ritmo e la qualità dell’agire. Ci si presenta per combattere, qui e ora. La forma dell’happening sembra puntualmente interessare tutto ciò che s’incrocia con la W. Lo scontro, infatti, è adrenalinico, non si immagina e vive nella durata. “Il ring è lo spazio mutevole che contempla tracciati geometrici, figurazioni aeree, sistemi dagli andamenti sinusoidali, ospita ritmi cardiaci e perdite d’intensità. Lo sforzo è fisico. Lo spazio è la lotta. Il pubblico segue il corso del tempo”. La W rimira questo momento di gara senza vincitori scrutando trionfante e poi, di nuovo, si consegna immota alla città muta e silente di segni. Brrrrr.
Voice of the city: Waudeville
Ora arriva la quarta occasione e sembra un po’ il quarto disco di un gruppo: il primo è la scoperta, il secondo è la conferma, il terzo è la proclamazione e Open potrebbe essere il Best of…
Aprile 2010. Il testimone W passa a Open, una piattaforma aperta formata da alcuni artisti con l’intento di condividere e ridistribuire idee, riflessioni e pratiche di lavoro intorno alla creazione di eventi performativi. La quarta stazione di posa è l'antico Sferisterio, spazio celato nel quale si discende dal mercato della Montagnola, il bazar della città. La W è apparsa su Via Irnerio. Open mutua la foggia dell’evento dal vaudeville, un genere di varietà di intrattenimento diffuso negli Stati Uniti tra la fine dell’ottocento e il novecento. Ogni performance era composta da una serie di atti separati e messi in relazione assieme da un’unica orchestrazione. L’origine del termine è oscura, ma sembra possa derivare, tra le tante ipotesi, dall’espressione voix de la ville (voce della città). Il termine Vaudeville, come di protocollo per tutti gli iniziati della W, subisce l’ennesima distorsione fonetica e alfabetica. Si attraversa l’incertezza espressa dal condizionale da una parte, la previsione in attesa di compiersi del futuro dall’altra: would-will. Infine Open si impianta definitivamente nella deformazione, ancora la w, ancora quel segno che invade ogni discorso. E il risultato è Waudeville. La proliferazione sciocca avviata dalla W non ha più limiti, è maniacale, tenta la via della polifonia, della poliglottia, della cittadinanza universale e spettacolare:
uno spazio di intra-tenimento / un segui persone / una creazione di circostanza / un intercettazione umorale/ una gara canina / un non prefigurato / un esercizio di respirazione / un istantanea di microclimi / una squadra di rugby / un economia del gesto / un piano di introduzione ed evacuazione / una gara di macchine telecomandate / un lanciatore di coltelli / una polifonia / una poli (presenza) / un palinsesto di inviti / un serpente / un allenamento / uno spogliatoio / una cognitio experimentalis / una bambina pattinatrice / una varietà della varietà / una shared common experience / una qualità quasi idiota / un coro di bevitori /un luogo del divertimento / un belvedere / una veduta / una coperta lunga / un luogo di passaggio / un bacio / una parola esotica / un piegamento all'indietro / un bengalese che taglia i capelli / una piccola oasi / una atletica allegra / un "nel frattempo".
W (- franchising Kinkaleri -) è il prefisso di differenti flessioni di uno spazio suscettibile a essere abitato. Continua la sua sventatezza.
Fonti depredate
M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano, Roma, Edizioni Lavoro, 2005.
F. Choay, Espacemens. Figure di spazi urbani nel tempo, Milano, Skira, 2003.
G. Clément, Manifesto del Terzo paesaggio, Macerata, Quodlibet, 2004.
A. Lugli, Naturalia et mirabilia. Il collezionismo enciclopedico nelle wunderkammern d’Europa, Milano, Mazzotta, 1990.
L. Wolfson, Le Schizo et les langues, Paris, Gallimard, 1970.
Differenti piani regolatori per l’ornato pubblico di città italiane.
16/04/10
15/04/10
13/04/10
01/04/10
30/03/10
29/03/10
16/03/10
12/03/10
Luoghi, città (per tribù senza terra)
Sono passati tre anni, ma quella W è sempre là, dritta, imperterrita, come una metro presa per il culo. "Mbè?! L'avranno montata a rovescio!", dicevano ad alta voce, qualche giorno fa, dei ragazzini romani in gita nella città, senza tradire alcuna ironia.
In Piazza Re Enzo, cuore storico di Bologna, a due passi dalla fontana del Nettuno, la W svetta ancora come un totem 'senza senso', a segnare forse qualcosa di esoterico avvenuto nella adiacente Galleria d’Accursio. Ogni tanto qualcuno, investito da una fantasia che non ha riscontro con alcuna realtà oggettiva, cerca di porre delle domande, a cui seguono risposte altrettanto fantasiose. Ricordo di avere letto la risposta data dalla giornalista Gaia Giorgetti con piglio assessoriale a un lettore del Corriere di Bologna, che chiedeva chiarimenti sulla funzione di quella W: "La W bianca in campo rosso indica molto probabilmente la zona wireless di piazza Maggiore, quell'area da dove ci si può collegare a internet senza pagare canoni e abbonamenti vari... Un ottimo servizio per i nostri giovani e un modo intelligente per mettere in collegamento la nostra bella piazza con il mondo intero". Sì, il wireless in effetti c’era, ma non aveva niente a che fare con quell’insegna, se non appunto la condivisione di una misera lettera.
Nel frattempo, esattamente a un anno di distanza, un’altra W è comparsa per clonazione non lontano dalla prima, in prossimità del sottopassaggio di via Ugo Bassi. La comunità cittadina ha così ripreso a interrogarsi sul significato recondito di quella doppia insegna, animando numerosi blog che, tra il serio e il faceto, cercavano di fare il punto sulla questione. Cito alla rinfusa, ma fedelmente, alcune risposte in forma di quesito: un ennesimo Mc Donald’s? Una toilette? Un WC? Una Wetro (la prima metropolitana in cristallo di Murano)? Una fermata del wauotobus? La pubblicità del modesto snack bolognese, il wafferati? Una 'Wiz', abbreviazione di 'Pinball Wizard', ottima location per un Museo del Flipper? La famosa Weltropolitana: parte da Bologna e arriva a Roma? Sta per W LA FOCA? Sarà mica ispirata al mondo Unix per comunicare informazioni? Oppure a Windows? La W potrebbe essere che ritorna Walter Vitali sindaco? Domani aggiungeranno 'LA', dopodomani 'FI' e poi lunedì 'CA'? Indica West, ovvero l'Ovest?
In attesa che il Comune di Bologna si esprima su quale uso fare di queste due insegne, una terza W è appena stata eretta nell’aiuola spartitraffico tra via Riva di Reno e Piazza Azzarita, vicino al palazzetto dello sport. Tutti luoghi evidentemente privi di qualsiasi epica metropolitana, zone in cui lo sguardo transita senza meta, attivate nella percezione del passante distratto proprio da questi indizi anomali.
Noi che apparteniamo alla micro comunità, o tribù, delle arti sceniche, a quel 'teatro' che è diventato sempre meno 'teatro' e sempre più una 'cosa', noi – dico - sappiamo bene come collocare quelle insegne nella nostra topografia sensoriale. Sono 'opera' - una e trina - di Kinkaleri per F.I.S.Co., concretamente un’opera d’arte, posizionata in un contesto urbano: una specie di ironico sberleffo al paesaggio, neanche troppo sottile vagheggiamento di un progetto di metropolitana, sempre più abortito dall’amministrazione comunale. Ma allo stesso tempo sono il residuo di un’azione, rilevatrici e tracce di una sosta performativa avvenuta esattamente in quei luoghi dove adesso si trovano le quattro W: Wanted (2007), Wasted (2008), Wrestling (2009),Waudeville (2010), a ipotizzare una nuova mappa concettuale della città. Perciò non una funzione di pubblico interesse nella comune accezione di 'uso' (come vorrebbe la triste prospettiva 'vespasiana' del cittadino-utente, sempre pronto ad esaltarsi di fronte al convincente rapporto qualità-prezzo delle opere di chiara e pubblica utilità), piuttosto il battesimo del luogo “come varco tra il concreto e il pensiero, tra lo stato delle cose e le declinazioni del possibile”.
Fabio Acca
da catalogo Tribù, F.I.S.C.o 09
Sono passati tre anni, ma quella W è sempre là, dritta, imperterrita, come una metro presa per il culo. "Mbè?! L'avranno montata a rovescio!", dicevano ad alta voce, qualche giorno fa, dei ragazzini romani in gita nella città, senza tradire alcuna ironia.
In Piazza Re Enzo, cuore storico di Bologna, a due passi dalla fontana del Nettuno, la W svetta ancora come un totem 'senza senso', a segnare forse qualcosa di esoterico avvenuto nella adiacente Galleria d’Accursio. Ogni tanto qualcuno, investito da una fantasia che non ha riscontro con alcuna realtà oggettiva, cerca di porre delle domande, a cui seguono risposte altrettanto fantasiose. Ricordo di avere letto la risposta data dalla giornalista Gaia Giorgetti con piglio assessoriale a un lettore del Corriere di Bologna, che chiedeva chiarimenti sulla funzione di quella W: "La W bianca in campo rosso indica molto probabilmente la zona wireless di piazza Maggiore, quell'area da dove ci si può collegare a internet senza pagare canoni e abbonamenti vari... Un ottimo servizio per i nostri giovani e un modo intelligente per mettere in collegamento la nostra bella piazza con il mondo intero". Sì, il wireless in effetti c’era, ma non aveva niente a che fare con quell’insegna, se non appunto la condivisione di una misera lettera.
Nel frattempo, esattamente a un anno di distanza, un’altra W è comparsa per clonazione non lontano dalla prima, in prossimità del sottopassaggio di via Ugo Bassi. La comunità cittadina ha così ripreso a interrogarsi sul significato recondito di quella doppia insegna, animando numerosi blog che, tra il serio e il faceto, cercavano di fare il punto sulla questione. Cito alla rinfusa, ma fedelmente, alcune risposte in forma di quesito: un ennesimo Mc Donald’s? Una toilette? Un WC? Una Wetro (la prima metropolitana in cristallo di Murano)? Una fermata del wauotobus? La pubblicità del modesto snack bolognese, il wafferati? Una 'Wiz', abbreviazione di 'Pinball Wizard', ottima location per un Museo del Flipper? La famosa Weltropolitana: parte da Bologna e arriva a Roma? Sta per W LA FOCA? Sarà mica ispirata al mondo Unix per comunicare informazioni? Oppure a Windows? La W potrebbe essere che ritorna Walter Vitali sindaco? Domani aggiungeranno 'LA', dopodomani 'FI' e poi lunedì 'CA'? Indica West, ovvero l'Ovest?
In attesa che il Comune di Bologna si esprima su quale uso fare di queste due insegne, una terza W è appena stata eretta nell’aiuola spartitraffico tra via Riva di Reno e Piazza Azzarita, vicino al palazzetto dello sport. Tutti luoghi evidentemente privi di qualsiasi epica metropolitana, zone in cui lo sguardo transita senza meta, attivate nella percezione del passante distratto proprio da questi indizi anomali.
Noi che apparteniamo alla micro comunità, o tribù, delle arti sceniche, a quel 'teatro' che è diventato sempre meno 'teatro' e sempre più una 'cosa', noi – dico - sappiamo bene come collocare quelle insegne nella nostra topografia sensoriale. Sono 'opera' - una e trina - di Kinkaleri per F.I.S.Co., concretamente un’opera d’arte, posizionata in un contesto urbano: una specie di ironico sberleffo al paesaggio, neanche troppo sottile vagheggiamento di un progetto di metropolitana, sempre più abortito dall’amministrazione comunale. Ma allo stesso tempo sono il residuo di un’azione, rilevatrici e tracce di una sosta performativa avvenuta esattamente in quei luoghi dove adesso si trovano le quattro W: Wanted (2007), Wasted (2008), Wrestling (2009),Waudeville (2010), a ipotizzare una nuova mappa concettuale della città. Perciò non una funzione di pubblico interesse nella comune accezione di 'uso' (come vorrebbe la triste prospettiva 'vespasiana' del cittadino-utente, sempre pronto ad esaltarsi di fronte al convincente rapporto qualità-prezzo delle opere di chiara e pubblica utilità), piuttosto il battesimo del luogo “come varco tra il concreto e il pensiero, tra lo stato delle cose e le declinazioni del possibile”.
Fabio Acca
da catalogo Tribù, F.I.S.C.o 09
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